Il fenomeno della delocalizzazione

La tendenza alla de-localizzazione delle produzioni interessa sempre più le PMI italiane, che, traendo vantaggio dai fattori produttivi non presenti nel Bel Paese (ossia facile reperimento di materie prime, manodopera a basso costo, vicinanza geografica a mercato di sbocco etc), decidono di spostare parte della produzione o linee della stessa all’estero, lasciando saldamente radicato in Italia il core business aziendale unitamente alle produzioni di alta gamma. In tal senso si stanno muovendo anche le imprese del Sud che, nell’ambito di politiche di espansione sempre più strutturate, stanno mettendo in cantiere decentramenti delle produzioni sia nei Paesi dell’Est (si pensi all’area balcanica) o dell’Est asiatico (Cina), sia nei Paesi latino-americani (Brasile; Argentina, etc.). In altri termini, la competizione non si gioca più all’interno di un territorio limitato o di un singolo Paese, ma a livello ormai globale.

NON SEMPRE SI CREANO CADUTE OCCUPAZIONALI – Infatti un mancato processo di de-localizzazione potrebbe compromettere la competitività delle imprese, soprattutto nella fascia bassa del prodotto, con conseguente perdita di quote di mercato, e ridimensionamento produttivo ed occupazionale.Contrariamente a quanto si comunemente si pensa, l’aumento della produttività aziendale, che si realizza attraverso un processo di espansione all’estero, consente a medio-lungo termine di creare nuovi posti di lavoro, grazie all’incremento dell’attività  di progettazione e di commercializzazione dei prodotti sia in Italia e che all’estero.

COS’E’ LA INTERNAZIONALIZZAZIONE PRODUTTIVA? – A partire dagli anni 90 in Italia accanto alla tradizionale politica di esportazione del prodotto (internazionalizzazione commerciale), le imprese hanno iniziato a de-localizzare la produzione all’estero (internazionalizzazione produttiva). Si assiste così al fenomeno della de-localizzazione internazionale della produzione, ovvero si attua uno spostamento di linee o fasi della produzione da imprese poste sul territorio di un determinato Paese ad altre localizzate all’estero (non necessariamente di proprietà delle prime); tale spostamento dà luogo ad un’attività produttiva di beni intermedi o finali destinati ad essere rivenduti sotto il marchio della impresa de-localizzante, quasi sempre al di fuori del Paese in cui essi vengono prodotti (un classico esempio è quella della produzione di mobili impiantata in Messico poiché i prodotti finiti hanno come sbocco il mercato statunitense). LE RAGIONI DEL FENOMENO – Questo processo sta interessando in misura crescente tutti i sistemi produttivi dei Paesi industrializzati, compresi alcuni comparti del sistema produttivo italiano. Sempre più spesso accade infatti che quello che prima veniva prodotto in unico sito industriale, adesso viene diviso e allocato in due siti diversi in Paesi diversi, frammentando appunto la produzione (semilavorati fabbricati in Romania  diventano prodotti finiti in Italia); oppure spostando intere gamme di prodotti all’estero (ad esempio prodotti di bassa gamma che per la lavorazione non necessitano di manodopera specializzata). I vantaggi di una de-localizzazione sono molteplici e vanno dalla presenza di risorse naturali nel Paese in cui l’impresa de-localizza (si pensi al legname in Brasile o alle pelli in Argentina), al basso costo della manodopera (fattore presente in tutti i Paesi in via di sviluppo e nei Paesi dell’Est)- scelte che possiamo definire cost or supply oriented -, fino alla opportunità di sfruttare la vicinanza geografica di importanti mercati di consumo (abbiamo detto il Messico per gli stati Uniti)- scelta market oriented. Accanto a questi – che sono fattori imprescindibili per una scelta de-localizzativa – si pongono altri fattori di vantaggio determinati ad esempio dal trattamento fiscale delle merci (si pensi ai dazi e agli accordi di libero scambio vigenti fra alcuni Paesi), oppure dalla riduzione dei costi di trasporto, o ancora dai servizi che una impresa può offrire ai consumatori esteri avendo una sede nel mercato di sbocco. LE DIVERSE FORME – L’internazionalizzazione della produzione può attuarsi secondo diverse forme: si può trattare di alleanze con imprenditori esteri (joint-venture, cessione di licenze etc.); ricorso a sub-fornitori indipendenti ai quali l’impresa fornisce i progetti dei prodotti e ne segue la realizzazione; infine possiamo avere un investimento diretto all’estero (IDE),attraverso acquisizione o creazione ex novo di una impresa all’estero. Le imprese che hanno da tempo delegato in tutto o in parte l’attività produttiva a sub-fornitori esteri, spostando commesse dall’Italia ad altro Paese, esercitano sulla produzione de-localizzata un alto livello di controllo, poiché i sub-fornitori esteri non possiedono le stesse competenze  di quelli italiani, e spesso, a seguito di questa fase, l’impresa decide di acquisire una partecipazione nelle aziende fornitrici, qualora ve ne sia l’opportunità, oppure costituisce ex novo una unità produttiva. Attraverso la costituzione di nuove unità produttive, anche le PMI possono strutturasi dunque come gruppo internazionale, e quindi, sfruttando le sinergie di una produzione globalizzata, saranno in grado di potenziare anche la struttura italiana. La gestione dell’aumentata capacità produttiva e l’accresciuta operatività che può spaziare su varie tipologie di prodotti fanno sì che l’impresa si avvalga  dell’apporto di nuove professionalità in grado di gestire l’innovazione e valorizzare lo sviluppo di prodotti d’alta gamma e di qualità. Rimandiamo alla prossima pubblicazione l’analisi relativa agli  gli aspetti della gestione degli investimenti diretti all’estero – IDE– e ai rapporti tra internazionalizzazione della produzione e livelli occupazionali.

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