La liberalizzazione dei servizi in Europa

Dopo un lungo lavoro di mediazione durato ben due anni e dopo l’ennesima rielaborazione del testo, al c.d. direttiva europea Bolkestein, ossia la direttiva che si occupa di eliminare gli ostacoli alla libera circolazione dei servizi nel mercato interno, è stata approvata, in prima lettura, dal Parlamento europeo con una larga maggioranza (391 favorevoli, 213 contrari, 34 astenuti), adesso passa al vaglio della Commissione e del Consiglio europei.

GLI OBIETTIVI DELLA DIRETTIVA – La direttiva in esame si propone di realizzare un vero mercato interno dei servizi, assicurando sia la libera circolazione dei servizi tra gli Stati membri che la effettiva libertà di stabilimento dei prestatori di servizi. Chiaramente questi obiettivi devono essere modulati in maniera da assicurare un equilibrio tra apertura del mercato, servizi pubblici nonché diritti sociali e tutela del consumatore, preservando in ogni caso un elevato livello di qualità dei servizi stessi. Per tale motivo la direttiva non impone agli Stati membri di liberalizzare i servizi di interesse economico generale che, al fine di rispondere a determinati obiettivi di interesse pubblico sono soggetti a specifici obblighi di servizio pubblico imposti al prestatore di servizi da parte dello stesso Stato membro, né tanto meno la direttiva impone la privatizzazione degli enti pubblici che prestano tali servizi, consentendo invece di organizzarne l’erogazione e assicurarne il finanziamento (a tal proposito si ricorda che non vengono aboliti i monopoli né viene modificate la disciplina degli aiuti concessi dagli Stati in base alle norme stabilite in materia di concorrenza).

CAMPO DI APPLICAZIONE – La direttiva si applica “ai servizi forniti da prestatori stabiliti in uno Stato membro”; la direttiva si applica solo ai servizi d’interesse economico generale, non quindi a quelli di interesse generale come definiti dagli stati membri (a meno che non si tratti di attività economiche aperte alla concorrenza alla cui fornitura partecipino anche imprese private). La direttiva comunque esclude espressamente alcune categorie dal novero dei servizi di interesse economico generale, rimettendone quindi la regolamentazione agli Stati membri. Segnaliamo, in modo non esaustivo, alcuni servizi esclusi:  i servizi sociali (edilizia sociale e servizi alla famiglia), le attività sportive senza scopo di lucro, i servizi di trasporto, i servizi finanziari (servizi di natura bancaria, creditizia ed assicurativa, servizi pensionistici professionali o individuali etc.), le professioni e le attività associate permanentemente o temporaneamente all’esercizio dei poteri pubblici in uno Stato membro (compresi i notai), i servizi giuridici, i servizi medico-sanitari, i servizi audiovisivi (in quanto assumono un ruolo fondamentale in materia di formazione culturale e di opinione pubblica), sono esclusi le agenzie di lavoro interinale etc.

LA CANCELLAZIONE DEL PRINCIPIO DEL PAESE D’ORIGINE – Possiamo certamente affermare che il più aspro motivo di scontro nel corso di questi due anni è stato il ben noto principio del paese d’origine, secondo il quale un qualsivoglia fornitore di servizi è tenuto a rispettare solo la legislazione del paese nel quale ha sede la propria impresa, non essendo sottoposto alle legge in vigore nel Paese membro in cui viene svolta la prestazione, determinando quindi una specie di dumping sociale, che avrebbe visto, secondo quanto sostenuto da più parti, “un’invasione” di lavoratori provenienti da Paesi membri meno avanzati (specie i nuovi entrati, Polonia, Ungheria etc.) in tutti i restanti Paesi dell’Unione Europea con grave pregiudizio per le tutele riservate ai lavoratori. La formulazione adottata dal Parlamento, e frutto del compromesso raggiunto dai gruppi parlamentari, cancella la regola dello Stato d’origine ed impone agli Stati membri di rispettare il diritto dei prestatori di servizi ad operare in uno Stato membro diverso da quello in cui hanno sede, assicurando il libero accesso ad una attività di servizio ed il libero esercizio di un’attività di servizio sul proprio territorio, non ostacolando l’attività con l’imposizione, ad esempio, di requisiti sproporzionati ed ingiustificati per il suo esercizio (ad esempio non si potrà imporre di stabilirsi presso lo Stato in cui si presta servizio, aprendo una sede o un ufficio o di ottenere un’autorizzazione, salvo quello che diremo in seguito, etc.). A questo proposito segnaliamo che, grazie allo strumento della deroga, è fatta salva l’applicazione della direttiva sul distacco dei lavoratori come vedremo più avanti.

LE DEROGHE – In base ad un emendamento presentato dai gruppi parlamentari PPE/DE, è stato definito che le disposizioni previste dall’articolo relativo alla libertà di prestazione dei servizi non si applicano ai servizi di interesse economico generale forniti in un altro Stato membro, come ad esempio ai servizi postali, ai servizi di trasmissione, distribuzione e fornitura di energia elettrica, ai servizi di trasmissione, distribuzione, fornitura e stoccaggio di gas, ai servizi di distribuzione e di fornitura idrica, ai servizi di gestione delle acque reflue e al trattamento dei rifiuti. Altra deroga di carattere generale riguarda la disciplina sul distacco dei lavoratori (direttiva 96/77/CE, di cui abbiamo parlato diffusamente in questa rubrica) e per le disposizioni che determinano la legislazione applicabile in materia di lavoratori subordinati. In particolare sono state cancellate le originarie disposizioni previste in materia di distacco dei lavoratori, specificando che la direttiva non concerne le condizioni di lavoro ed occupazione che si applicano ai lavoratori distaccati per prestare servizio in un altro Stato membro, essendo già previsto nella direttiva sul distacco dei lavoratori che questi debbano conformarsi alle condizioni di occupazione applicabili, in alcuni settori specifici, nello Stato in cui viene prestato il servizio (ad esempio periodi minimi di riposo, ferie annuali retribuite, sicurezza ed igiene sul lavoro etc.); la direttiva Bolkestein non dovrebbe impedire agli Stati di applicare condizioni di lavoro e di occupazione a questioni diverse da quelle elencate dalla direttiva 96/77/CE per motivi di ordine pubblico.